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Acireale: Passeggiando tra opere inedite di Saru Spina, un incontro

di Giuseppe Bella

Giunto al bordo estremo della vita, non riuscendo a sottrarsi all’assillo costante del cavalletto, cosa scorgerà l’artista sullo schermo immacolato della tela? Sarà pure che vi veda proiettate le ombre delle opere nelle quali si esercitò la sua fantasia più ispirata: quasi in un accesso di nostalgia per ciò che venne espresso nei colori e nelle forme che il tempo, via via, si è incaricato di oltrepassare, rendendo desueto lo stile che, allora, appassionò l’artista. Ma Saru Spina, alle prese con il suo ultimo quadro, non ha tempo né voglia di ricordare: è prossimo alla fine, ha ottant’anni, solo cinque gliene rimangono; in quel momento non può certo prevederlo, ma lo stato d’animo è quello di chi sa che i giorni più fervidi si sono consumati. Saru, quel giorno del ’38, vede se stesso. E dipinge un commiato dall’esistenza. In figura d’autoritratto. La scena pittorica è complessa, pervasa da cupa malinconia. Sullo sfondo sono fantasmi, essenze evanescenti: un viso giovane, di cui non si può stabilire se sia di donna o di ragazzo, e teschi in lugubre girandola. Teschi meno macabri che sarcastici: hanno in bocca il sigaro o la pipa. E fumano. Come fuma con gesto spavaldo lo stesso Saru Spina, che si offre dritto allo sguardo, volendoci dire: ecco come sarò, e ciò sarà ineluttabile, ma pur se inteschiato mai smetterò di fumare. Ha il petto su cui si apre una profonda scollatura. Quasi di chi lo offre, intrepido, alla scarica di un plotone. I colori si sfaldano, si decompongono; c’è del giallo, però opaco, tocchi di pennello tondi come margherite e violaciocche, benigna flora da camposanto; tuttavia predomina un tono d’arancia, sfatto, che si diffonde sul volto e sul petto del personaggio, quasi fosse l’anticipazione di ciò che avverrà al colorito della carne, post mortem. Ma lo notiamo agevolmente: la spavalderia di Saru è una maschera, dietro cui fermenta lo sconforto. E lo dimostrano le scritte sulla parte inferiore del dipinto, trasversali al busto, a ridosso del teschio più basso che le arresta con l’energia di un punto fermo. E sono due parafrasi: la prima, in caratteri stampatello, dall’Adelchi (“Fuor della vita è il termine del lungo tuo martir”); la seconda, in minuscolo, dall’Aida (“O terra, addio; addio, valle di pianti”).

Saru Spina | Autoritratto con la moglie, 1900 ca., olio su tela, cm 156 x 84
Saru Spina | Idillio campestre, 1887, olio su tela, cm 49 x 74

C’è da presumere, tuttavia, che Saru apponga queste frasi in un momento successivo alla composizione dell’autoritratto, in limine vitae. Lo ha fatto altre volte, a esempio a proposito del ritratto del padre. È una pittura, questa, a uso privato, non destinata alla vendita; una pittura che testimonia gli affetti più cari, i sentimenti più inviolabili. Ma il senso complessivo di un’opera che chiude un cerchio, rimane. Saru con questo autoritratto fa i conti con se stesso, come uomo che va a concludere il ciclo della propria esistenza su questa terra; e fa i conti con la propria pittura. Che è stata una pittura organicamente ottocentesca. Le apparenze erano, per lui, la scena stessa del mondo. Si pensi all’“Autoritratto con la moglie” (del 1900 ca.). Qui Saru è un compiuto quarantenne, artista famoso, borghese benestante; si ritrae con la moglie in un interno, che si intuisce fastoso; e lussuoso è l’abbigliamento di entrambi, specie della donna, la cui figura è avvolta in un morbido pitone. I colori sono marcati, il disegno è impeccabile, la luce batte frontalmente. Lui ha uno sguardo compiaciuto, pur con quella sfumatura ironica cui non poteva mai rinunciare. È messo in posa, nella scena culminante di una riuscita biografia. Ma c’è stato anche teatro, e molto, nella pittura di Saru. Il pezzo migliore è indubbiamente “Idillio campestre” del 1887. In un cortile incorniciato da un verde lussureggiante (l’edera rampicante, l’olocasia dalle carnose foglie, l’agave dalle lame ricurve) l’azione pittorica inscena due personaggi, un uomo e una donna, vestiti alla maniera dei contadini in un giorno di festa. Lei cuce un abito, seduta in periclitante equilibrio su una sedia dallo schienale ribaltato sul bordo di una pila o di una cisterna; sembra interamente assorbita nel suo compito, ma sulla bocca le corre un sogghigno, o compiaciuto o scettico. Perché l’uomo, disteso su un fianco lungo il bordo della stessa muratura, si regge la testa con le mani, in un gesto di insopportazione, le labbra aperte in un lamento o richiamo d’amore. È un perfetto fermo immagine, la cristallizzazione di una scena di cui agevolmente si intuiscono gli antecedenti, il decorso e il finale.

Saru Spina | Autoritratto con teschi, 1938, olio su tela, cm 72,5 x 53 (particolare)
Calusca | Man/chair 2 – double G.P. inside a mirror, 2005, tecnica mista su tavola,
cm 115 x 160 (particolare)
Calusca | The tailor – a lot and half, 2000, tecnica mista su tavola, cm 140 x 140 (particolare)

Le opere ottocentesche di Saru Spina, nel loro insieme, sono una rappresentazione della commedia umana. Appunto, commedia: non c’è mai tragedia né dramma. La temperie è agli antipodi di quella che si respira nelle novelle e nei romanzi di Verga, per fare un esempio. C’è molto sorriso, nei quadri di Saru; molta ironia, a volte sarcasmo. Insomma: ogni quadro è una quinta teatrale. Per tutte queste ragioni sorprende la novità dell’ultimo quadro, il quadro dell’addio. Non ci è dato sapere come Saru abbia reagito alle avanguardie storiche d’inizio Novecento. Forse le percepì come un assalto barbarico ai canoni della pittura realistica. O forse le concepì come il nuovo ordine al quale lui, di salda formazione figurativa, non era titolato ad accedere. Ma sta di fatto che echi e suggestioni espressionistiche si riversino nel suo autoritratto in forma di testamento. Ottenendo esiti molto moderni, dei quali esiti egli stesso, forse, non aveva in quel preciso momento contezza. A maggior ragione non era certo in grado di prevedere le proiezioni future che dalla sua opera estrema si sarebbero sprigionate.

Calusca | Man/chair 2 – double G.P. inside a mirror, 2005, tecnica mista su tavola,
cm 115 x 160

Esistono nel mondo della creazione artistica zone di mistero che nessuna indagine storica o iconologica riuscirà mai a spiegare. Perché è vero: tra le opere di certi artisti distanti persino secoli gli uni dagli altri si distendono fili occulti. Fili non sempre ravvisabili nei termini di un’influenza stilistica scientemente subita. O nei termini di un’azione citazionistica. O di una ripresa di stilemi barbarici e primitivi. Penso a un pittore nostro contemporaneo. Calusca è lo stesso curatore della rassegna di opere inedite di Saru Spina (ancora in mostra alla Biblioteca e Pinacoteca Zelantea di Acireale fino al 29 aprile). Nel 2000, quando ritrae un personaggio come abbruciato dai colori dello sfondo e del suo stesso vestito (“The tailor – a lot and half”); oppure quando, nel 2005, dipinge un soggetto dal curioso doppio volto (“Man/chair 2 – double G.P. inside a mirror”); egli non conosce l’autoritratto del ’38 di Saru Spina; non l’ha mai visto. Eppure, c’è un’impressionante corrispondenza tra questi due lavori e l’autoritratto in questione. Risulta evidente l’identica concezione dello sfondo non come fondale neutro o di completamento della scena dipinta, ma come parte eloquente della regia cromatica, che la governa. Sia in Saru sia in Calusca il colore marcito e come degradato si assume il compito di esprimere una precisa intensità emotiva dei personaggi, non solo, ma anche una loro specifica caratura morale, o perfino esistenziale. Beninteso: non dei personaggi in quanto singoli individui, ma in quanto “maschere” sulla scena del mondo, destinate alla lenta corruzione della carne

Calusca | The tailor – a lot and half, 2000, tecnica mista su tavola, cm 140 x 140

Info Mostra:

Biblioteca e Pinacoteca Zelantea 16 dicembre 2022 | 29 aprile 2023

via Marchese di Sangiuliano n. 17, Acireale (CT)

Aperto da martedì a venerdì: 10 – 13 e 15.30 – 18.30 | sabato: 10 – 13

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