La festa di San Sebastiano nei ricordi del prof. Francesco Catania
di Rosario Catania – Ieri alla conclusione della festa del Santo compatrono della Città, quest’anno purtroppo resa disagevole dalla pioggia che ha causato il ferimento di due devoti, mi sono ricordato di un articolo di mio padre, il prof. Francesco Catania, riguardante San Sebastiano, pubblicato nello storico «Il Gazzettino del Sud» del direttore Giuseppe Vecchio.
Tornato a casa, frugando tra le carte di mio padre, ho rirtovato e letto l’articolo in cui viene narrata la festa di San Sebastiano nel buon tempo antico, e oggi lo propongo ai lettori di Etna Mare Reporter, affinché lo sforzo del mio genitore di tramandare la memoria storica e le tradizioni acesi non venga dimenticato:
Anticamente gli acesi davano questo appellativo al Santo dai capelli ricciuti, la cui ricorrenza era preceduta e accompagnata da un insieme di irrinunciabili abitudini dentro e fuori casa. Ritorna la festa “Du Rizzareddu” l’amato Compatrono S. Sebastiano.
Erano anni che mi sono lambiccato il cervello, durante le settimane che precedevano la festa di S. Sebastiano, cercando di ricordare l’appellativo che la mia saggia vecchietta vicina di casa,nei tempi lontani della mia fanciullezza, dava al nostro Santo compatrono. Sì, era qualcosa che si rifaceva ai capelli, ma per quanto mi scervellassi, alle volte per ore intere nelle notti d’insonnia, non riuscivo a ricordarlo. Stava diventando quasi un ossessione.
Ecco perché sfogliando, proprio in questi giorni, la bellissima, elegante, utile agenda del giornale «La Sicilia», quell’appellativo mi è stato svelato.”U Rizzareddu”, proprio così, il Santo dai capelli ricciuti: Era allora un appellativo popolare.
Ricordo che la gente del mio cortile diceva «Prima da festa du Rizzareddu, facemu u suzu». Appunto, la gelatina fatta in casa. Un piede di porco, scoccia di maiale, succo di limone ed altri vari ingredienti. Grossi vasi di terracotta allietavano per parecchie settimane la tavola e il palato di tutti noi
Che festa grande, allora, quella di San Sebastiano. Quanta devozione, quanto folclore, quanti fuochi artificiali.
L’uscita del fercolo dalla chiesa, alle undici e mezza, era uno spettacolo. A scuola ci accordavano il mezzo orario per essere presenti all’esaltante evento e, di conseguenza, poter gridare assieme ai devoti «Viva Sammastianu!».
Tremavamo e ci emozionavamo nel vedere il fercolo scivolare velocemente verso la piazza, ma non succedeva mai niente, almeno a memoria mia. «Picchì ti scanti» – ci diceva un mio parente devoto – «cchi voi, ca Sammastianu fa attruppiari qualcunu?» poi il giro, passando per tutti i quartieri della città.
Molti fedeli, per grazia richiesta o ricevuta seguivano il fercolo per l’intero giro, altri si accontentavano di mezzo giro.
L’appuntamento, a metà del pomeriggio, con il treno delle sedici alla stazione, era tradizionale.
Durante la prima guerra mondiale, di solito era il treno per il continente che portava i soldati verso il fronte. Fanciulletto sentivo raccontare anche dalla viva voce di coloro che ne erano stati protagonisti.
Soldati stipati ai finestrini,sotto i quali si affollavano madri, spose, figli in lacrime, spesso cercando di dare ai cari parenti una immaginetta del Santo: «Si mo maritu turnau da guerra, fu un miraculu di Sammmastianu»
Il pranzo – 20 di gennaio – nella mia famiglia si era soliti mangiare la salsiccia con “i caluceddi”.
La sera, poi, noi ragazzi vagavamo un po’ dietro il Santo, un po’ passeggiando per via Umberto, illuminata dagli splendenti archi multicolori, rosicchiando, come in ogni altra festa, “calia, nuciddi americane e simenza”.
La nostra festa è conosciuta anche oltre i confini della provincia. Non di rado ne ho sentito parlare anche oltre lo Stretto.
In Sicilia, specialmente nella cittadina di Palazzolo Acreide, dove risiedetti da militare per alcuni mesi e dove San Sebastiano è venerato e festeggiato come la nostra città: «Lei è di Acireale?» – mi dicevano- «Allora siamo quasi fratelli perchè abbiamo lo stesso padre, il miracoloso San Sebastiano».
Anche in quella splendida cittadina i devoti sono tanti. A quell’epoca si riunivano ogni mese in una propria sede e anche nella chiesa che porta il nome del Santo. Proprio in questi giorni, mi è stato detto, anche i nostri devoti fanno altrettanto.
A me ormai della festa rimangono solo i ricordi. Sento gli spari, a volte anche qualche scampanio lontano.
A tarda sera, dietro i vetri della mia finestra, aspetto di vedere passare da lontano il fercolo del Santo che scende lentamente per il corso Savoia verso il Duomo. Guardo, prego e ricordo.
(Francesco Catania, Il Gazzettino del Sud, n. 2368, Acireale, 16 gennaio 2007)